Hannah Arendt, la responsabilità come agire politico
che rimette in sesto il tempo, rinnovando il mondo

di Gaziella Longoni*


Hanna Arendt

Il libro di Donatella Bassanesi, “Hannah Arendt pensare il presente”, è un invito ad affinare l’ascolto di una parola che nasce nel cuore di un pensiero interrogante, il cui modo di dispiegarsi richiama l’azione sconvolgente e purificatrice del vento. Come il vento che, quando si solleva, cancella la polvere che uniforma le cose, lasciandole riapparire nella loro irripetibile singolarità,  così il pensiero,  nel suo continuo domandare il senso di ciò che accade,   cancella  la polvere della menzogna che copre i fatti e scongela ciò che nel linguaggio è diventata parola irrigidita, chiacchiera alienante.
Lo stile del libro è l’intrecciarsi di un dialogo che lascia essere l’altra per comprendere il suo sguardo sul mondo, la tensione etica che attraversa il suo sentire e il suo ragionare sugli eventi che accadono in questo ”mondo comune”, la cui cifra è la pluralità di soggetti che stanno insieme nella differenza  che costituisce la loro identità.
Sollecitata dall’impegno di Donatella Bassanesi, mi sono messa ad ascoltare H. Arendt, volgendo la mia attenzione alla responsabilità, parola oggi molto  abusata, soprattutto dai politici che spesso la invocano per giustificare scelte tremende come, ad esempio, il presunto dovere morale di partecipare alla guerra globale contro il terrorismo per salvare il “mondo civile” dalle barbarie e  rispondere al bisogno di sicurezza dei loro concittadini.   Entrerò dunque nella struttura  della responsabilità, cercando di dialogare con le suggestioni offerte dal pensiero di H. Arendt,  calandolo nella contemporaneità nella quale noi viviamo.
In particolare cercherò di portare alla luce il senso della responsabilità collettiva, o politica, che si iscrive nell’orizzonte della natalità, perché assumersi una responsabilità di fronte a fatti drammatici, che precipitano il mondo nel dolore e nella morte, significa cercare di “rimettere in sesto un tempo deragliato,” un tempo senza memoria, un tempo schiacciato su un presente che è ripetizione del già accaduto, un tempo chiuso al futuro della possibilità. Questo “rimettere in sesto il tempo”  è - per H. Arendt - un nuovo inizio, l’agire politico che rinnova il mondo stesso.
In “Responsabilità collettiva” ( intervento  ad un convegno dal titolo omonimo, del1968) la Arendt affronta questo tema , preoccupandosi in primo luogo di tracciare una precisa linea di confine tra colpa morale e responsabilità politica, precisando che la prima porta in scena la centralità dell’io nella sua singolarità, mentre la seconda porta in scena la centralità del mondo, inteso come lo spazio pubblico abitato dalla pluralità.
La sua argomentazione inizia, distinguendo la responsabilità dalla colpa e precisando che si può parlare di responsabilità collettiva, ma non di colpa collettiva; non ha senso infatti sentirsi colpevoli di qualcosa che non si è commesso, ma ha senso invece sentirsi responsabili di qualcosa che è stato commesso in nostro nome.
La colpa ci singolarizza, è strettamente personale perché si riferisce sempre ad un’azione precisa che è stata compiuta in prima persona. Ne consegue che va respinta la logica sottesa all’affermazione “Siamo tutti colpevoli”, pronunciata a volte di fronte ad eventi abnormi, come il razzismo dei bianchi contro i neri o il genocidio degli ebrei nell’olocausto, perché questa generalizzazione della colpa finisce con il discolpare coloro che sono realmente colpevoli, sollevandoli dall’obbligo morale di rispondere delle loro azioni e con il promuovere una sorta di solidarietà con i criminali e non con le vittime dei loro crimini.
“Quando si è tutti colpevoli, in fin dei conti nessuno lo è” e tutto il male commesso finisce con l’essere letto o come espressione di una sorta di follia generale che avrebbe ottenebrato la mente di un’intera comunità , o come qualcosa di inarrestabile perché chi lo compiva era solo la rotella di un ingranaggio che avrebbe comunque portato a compimento, con lui o senza di lui, il fine per cui era stato attivato, o come una necessità   perché chi lo agiva, non faceva altro che obbedire a degli ordini cui non poteva sottrarsi, pena la morte.
Secondo la Arendt, queste sono strategie di de-responsabilizzazione che pretendono di trasformare il colpevole in una sorta di vittima di un sistema che legittima il crimine, non riconoscendolo come tale.
Molto significativa é la successiva riflessione sulla responsabilità collettiva che, a differenza della colpa,  pone problemi di natura essenzialmente politica.
La responsabilità collettiva è sempre politica:

  1. “sia che l’intera comunità si assuma la responsabilità di ciò che ha fatto uno dei suoi membri,
  2.  sia che una comunità venga ritenuta responsabile di ciò che stato fatto in suo nome,
  3. sia nel caso specifico in cui il membro di una comunità è ritenuto responsabile di atti cui non ha partecipato direttamente ma che sono stati fatti in suo nome . ( H: Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, pagg. 129, 133)

 Il secondo e il terzo tipo di responsabilità sarebbero i più interessanti per i problemi che pongono.
Il secondo caso  ci mette di fronte al fatto che ogni governo è chiamato ad assumersi la responsabilità degli atti dei suoi predecessori e ogni nazione ad assumersi la responsabilità   del proprio passato. A questa responsabilità non si potrebbe sfuggire dal momento che tutti siamo membri di una certa nazione e viviamo in un presente che scaturisce sempre da un certo passato e ne porta i segni.
Ho usato il termine “potrebbe” e non “può” , usato dalla Arendt, perché accade frequentemente che una comunità non si assuma la responsabilità della sua storia e non faccia i conti con il proprio passato, con la conseguenza che non potrà dare inizio a una nuova temporalità, quella, ad esempio,  della riparazione del male compiuto a danno di un altro paese e di un altro popolo che, umiliato, coverà così  un risentimento sempre pronto ad esplodere.
Non a caso la Arendt, nello scritto “Alcune questioni di filosofia morale”, dirà che “i peggiori malfattori sono coloro che non ricordano – semplicemente perché non hanno mai pensato (non si sono mai interrogati sul senso degli eventi) e –senza ricordi – niente e nessuno può trattenerli dal fare ciò che fanno. Per gli esseri umani, pensare a cose passate significa muoversi nella dimensione della profondità, mettere radici e acquisire stabilità, in modo tale da non essere travolti da quanto accade. Il peggior male è un male senza radici perché questo male non conosce limiti. Proprio per questo, il male può raggiungere vertici impensabili, macchiando il mondo intero.”  (in, Resposabilità e giudizio, idem, pag. 81)
Purtroppo noi oggi stiamo vivendo in presenza di questo male... quando gli Stati Uniti – tanto per citare alcuni fatti tra i molti - si sorprendono perché tanta parte del mondo li odia; quando paesi responsabili di genocidi, compiuti in nome della pulizia etnica per salvaguardare la purezza della nazione, non consegnano i criminali, venerandoli come eroi nazionali, come in Serbia; quando i responsabili di crimini di guerra e contro l’umanità siedono in Parlamento e si auto-assolvono, promulgando leggi che decretano l’amnistia,  estinguendo così i reati commessi e lasciandoli impuniti, come accade nel “democratico”  Afghanistan di oggi; siamo in presenza di una chiara non assunzione di quella responsabilità collettiva che è invece necessaria per ridare spazio a quell’azione politica che si configura come  un “nuovo inizio” all’insegna del primato della natalità.
Il terzo caso, affrontato dalla H. Arendt, ferma l’attenzione sui membri di una comunità ritenuti responsabili di atti cui non hanno partecipato direttamente, ma che sono stati fatti in suo nome.
Questa “non partecipazione” può essere frutto di una scelta precisa che risuona non come un ritirarsi dalla vita politica, ma come una forma di resistenza ad una politica avvertita come disastrosa e nefasta per il proprio paese . Questa forma di resistenza, anche se difesa con argomenti morali, è una resistenza politica perché il centro dell’attenzione non è l’io , ma il destino del proprio paese e il suo comportamento nei confronti di altri paesi.
In genere questa “non partecipazione” è una scelta che si espone al rimprovero di irresponsabilità, perché considerata dalla collettività come una sorta di tradimento e un modo vigliacco di sottrarsi ai doveri verso la comunità cui si appartiene.
H. Arendt invece la considera l’espressione alta di un pensiero che si sottrae al conformismo, un pensiero che si interroga sul senso di quanto accade, un pensiero che, liberato dagli stereotipi dilaganti nella società di massa, è in grado di formulare un giudizio, che è la più politica delle facoltà umane. Il giudizio infatti porta il pensiero in quello spazio tra passato e futuro (“presente come fessura”) che è la sola dimensione dell’agire e il presupposto della responsabilità.
Sono proprio queste persone, che non partecipano ad atti compiuti anche in loro nome in quanto membri di una data comunità  e resistono al conformismo che cancella la singolarità nella massa anonima che si accontenta di riprodurre il già dato senza mai interrogarsi sul senso e la portata di ciò che accade; sono proprio queste persone i soggetti più consapevoli che la responsabilità collettiva, “questa forma di responsabilità per cose che non abbiamo fatto, questo assumerci le conseguenze di atti che non abbiamo compiuto, è il prezzo che dobbiamo pagare per il fatto di vivere sempre le nostre vite, non per conto nostro, ma accanto ad altri, ed è dovuta in fondo al fatto che la facoltà dell’azione – la facoltà politica per eccellenza -può trovare un campo di attuazione solo nelle molte e variegate forme di comunità umana”.
(Responsabilità e giudizio, idem, pagg. 135 – 136)
Sono loro infatti i soggetti politici che, non dimenticando il passato, interrogando il presente nell’orizzonte della pluralità come  molteplicità di sguardi, portano in scena il significato più autentico della responsabilità, svelando la struttura relazionale che caratterizza.
Queste riflessioni della Arendt  mi hanno fatto pensare alle “Donne in nero di Belgrado” che hanno resistito e resistono alla politica negazionista del loro governo, continuando a ricordare il genocidio di Srebrenica e a chiedere che i criminali siano portati davanti al Tribunale dell’Aia. Hanno dichiarato pubblicamente che, in quanto serbe, si assumono la responsabilità collettiva di quanto è stato compiuto anche in loro nome, ma, differenziandosi dalla politica del loro governo,  non smetteranno di attraversare i confini fasulli, eretti dalla guerra, per recarsi a Srebrenica ad incontrare le donne bosniache, alle quali hanno chiesto perdono e con le quali stanno cercando di ricostruire i fili della coesistenza, dando avvio così a quel “cominciamento”  che avviene sotto il segno della natalità e del futuro.
La loro azione politica dimostra chiaramente la struttura relazionale ed interlocutoria della responsabilità, che può essere detta in questo modo: assumere la responsabilità collettiva significa rispondere all’altro, chiamarlo sulla scena del mondo come interlocutore, riconoscerlo nel dolore che gli è stato inflitto, nell’offesa che ha ferito la sua dignità, nel suo diritto alla giustizia e al risarcimento e nello stesso tempo riconoscersi come membri di una comunità, retta da un governo che ha compiuto la violenza, membri però che, differenziandosi all’interno del noi collettivo per non aver partecipato agli atti che hanno recato offesa, possono dire alle vittime: “Non in nostro nome è stato compiuto questo male; in nostro nome noi vogliamo ritessere i fili del dialogo brutalmente interrotto, ripercorrere la strada che ci permetterà di incontrarvi nuovamente sul nostro cammino perché voi non siete il nemico, ma l’altro che abita in questo mondo che ci è comune”.
Ora, per agire questa responsabilità collettiva, è necessario – secondo la Arendt - avere un “cuore comprensivo”,  essere capaci cioè di esercitare quella preziosa facoltà dell’immaginazione, che ci consente di pensare il futuro proprio perché ci si è interrogati sul passato.
E’ infatti questo “cuore comprensivo” e non la mera riflessione o il mero sentimento – precisa la Arendt - che “ci permette di sopportare di vivere con gli altri, sempre estranei, in uno stesso mondo, e consente a loro di sopportarci.” (H. Arendt, Archivio Arendt 2, a cura di S. Forti, Feltrinelli, pag. 97)
E’ questo “cuore comprensivo” che, di fronte all’irreversibilità dell’azione  e ai suoi effetti mai completamente prevedibili, sa chiedere perdono e  si impegna a fare e a mantenere promesse capaci di costruire nuovi legami tra gli esseri umani.
Senza essere perdonati -  e il perdono si rivolge alla persona, non al crimine commesso che rimane imperdonabile- senza essere cioè liberati da ciò che è stato fatto in nostro nome, rimarremmo per sempre imprigionati nelle conseguenze di ciò che è stato compiuto e resteremmo in balia della vendetta come coazione a ripetere; senza essere vincolati al mantenimento delle promesse, saremmo condannati a vagare nell’oceano dell’incertezza e, privi di aiuto, a rintanarci nelle tenebre di un’interiorità impaurita.
Il perdono e le promesse sono naturalmente facoltà che dipendono dalla pluralità, dalla presenza e dall’agire degli altri , dato che nessuno può perdonarsi da solo o sentirsi legato da una promessa fatta solo a se stesso; perdonare e promettere nel privato del propria solitudine è un atto privo di realtà, nient’altro che una parte recitata davanti a se stessi. ( H. Arendt, Vita activa, Bompiani, pag. 175 e segg.)
“Perdonare”, per chiudere il cerchio della vendetta che riproduce sempre l’altro come il nemico da abbattere, e “promettere un nuovo inizio”, per riparare i torti e le offese, sono - per H. Arendt – i momenti di quell’agire politico che consentono l’apertura di una nuova temporalità, dove la nostra storia di “esseri nel mondo con gli altri” potrà continuare.  Riprendendo il contatto con la nostra origine, la natalità, che ci fa apparire nel mondo come annuncio di un nuovo inizio, potremo dunque liberarci di quella coazione a ripetere che Freud chiamava istinto di morte proprio per la carica di distruttività  che porta nel mondo.

Intervento tenutosi in occasione della Tavola rotonda di presentazione del libro
Donatella Bassanesi,
Anna Arendt. Pensare il presente
edizioni LUD, Milano 2006

Per richiedere il libro:
universitadelledonne@tin.it


Altre recensioni:
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Adriana Perrotta Rabissi


 

18 maggio 2007

* Graziella Longoni – Donne in Nero Milano -